Il potere del Dono

Non cosa, né quando, tantomeno quanto. La domanda da porsi è: perché donare?

Il Covid19 ha ribaltato le nostre vite, imponendo un nuovo ritmo alla quotidianità e diffondendo strane abitudini, inimmaginabili fino a qualche mese fa. Bollettini, statistiche, polemiche imperversano ogni giorno sui social network e in televisione, tanto che, a volte, risulta difficile capire quali siano i contorni della verità, dove inizi e dove finisca la bontà delle informazioni che apprendiamo.

Oltre alla verità, molti di noi cercano uno scopo, qualcosa che renda sensati i nostri gesti. L’impossibilità di programmare, di fare o di produrre costringe ognuno di noi a vivere una strana inquietudine, quella tipica infelicità dell’uomo che per Pascal “deriva dalla sua incapacità di starsene nella sua stanza da solo”.

Siamo dunque in cerca di un fine: non un semplice impegno quotidiano, ma un’idea forte, capace di orientarci nel mare tempestoso in cui siamo stati gettati. Forse desideriamo un’utopia, un progetto che abbia valore, perché, si sa, dal valore discende il senso e con esso, forse, la serenità dell’animo.

 

A conti fatti, gli strumenti a portata di mano per riappropriarci di una vita “normale” non sono molti. Tuttavia, ve n’è uno diverso dagli altri. Questo strumento, che vanta un insospettabile potere, è il dono.

 

Esiste allora un legame tra la pandemia e il dono? Io penso di sì…
La specificità di questa pratica sta nella sua dimensione simbolica. L’atto del dono è una pura messinscena, antica e affascinante, che cela una funzione segreta. Che siano soldi o giocattoli, gioielli o libri, non importa, in quanto il dono in sé simbolizza l’intenzione di “creare, alimentare o ricreare il legame sociale tra le persone”[1].

Riflettiamo. In questo particolare momento storico, dove le distanze sono la prassi e l’isolamento nelle proprie case necessario, non è forse il dono una delle poche pratiche rimaste per sostenere le relazioni sociali?

L’essere umano, in quanto animale sociale, ha un profondo bisogno di instaurare relazioni, confrontarsi, creare legami. Questa funzione distingue l’atto del donare dal puro scambio monetario, basato, per l’appunto, sull’ idea che a una specifica quantità di denaro ne corrisponderà una identica. In altri termini, è previsto un corrispettivo che abbia lo stesso valore.

Diversamente, l’atto del dono prevede effetti dal valore esponenzialmente maggiore se paragonati a ciò che viene donato. In questo senso, per afferrare la dinamica fisica del dono potrebbe essere d’aiuto pensare ai cerchi concentrici che si creano nello stagno dopo averci gettato un sasso: un gesto apparentemente innocuo come il dono ha delle ricadute positive, durevoli e smisurate nel contesto sociale.

Dal punto di vista utilitaristico, il dono in sé è privo di importanza. Assume invece rilevanza nel momento in cui lo si legge in un’ottica relazionale, in base alla quale è tanto più prezioso quanto più contribuisce a conservare e fortificare il legame sociale che lega i due soggetti coinvolti. Il dono è dunque parte integrante del “bene relazionale”, quel “bene che può essere prodotto e fruito soltanto assieme da coloro i quali ne sono, appunto, gli stessi produttori e fruitori, tramite le relazioni che connettono i soggetti coinvolti: il bene è dunque detto relazionale per il fatto che è (sta nella) relazione”[2].

Dunque, oggi più che mai, donare significa partecipare a quel processo di rigenerazione del tessuto sociale, di cui tutti noi facciamo parte. All’ansiogeno distanziamento sociale imposto per prevenire il contagio possiamo contrapporre la fiducia che, come i cerchi nello stagno, si propagherebbe nella comunità per effetto del dono. Un gesto silenzioso sì, ma pur sempre fragoroso.

 

 

[1] J.T. GODBOUT, L’esprit du don, La Découverte, Paris 1992; tr. it., Lo spirito del dono, Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 30.

[2] P. DONATI, La cittadinanza societaria, Laterza, Bari 1993, pp. 121-122.